Anno 2003. Libia, Ras Al Hilal, un villaggio sulla costa ai piedi del monte Jebel Akhdar nel distretto di Derna, nella regione nord-orientale della Cirenaica, a poca distanza dai famosi siti archeologici di Apollonia e Cirene, ma anche regione tristemente famosa per essere stata l’ultimo caposaldo dei jihadisti che la tennero sotto il loro controllo per tre anni fino al 2016, facendone una roccaforte dell’Isis.

UN TESORO IN FONDO AL MARE

Un sito subacqueo, a circa 20 metri di profondità con 31 cannoni in bronzo, armi, munizioni, stoviglie di bordo. Un relitto intero da scavare, indagare, documentare, studiare. Questo ci aspettava nel corso delle due settimane che avremmo trascorso in terra africana, invitati dalle autorità libiche per svelare cosa fossero quei reperti casualmente rinvenuti qualche anno prima. Ma facciamo un passo indietro.

LA MISSIONE

Un subacqueo siciliano, contattato da alcuni amici libici, aveva effettuato l’anno precedente alcune immersioni sul sito, documentando e rilevando ciò che subito si dimostrò essere materiale archeologico. Al suo rientro in Italia, dopo avere informato Sebastiano Tusa, che da poco aveva formato il gruppo di archeologia subacquea, propose al Servizio per il Coordinamento delle Ricerche Archeologiche Sottomarine una missione per iniziare i primi studi sul relitto. Grazie ad un accordo con il Dipartimento delle antichità della Libia e la Ras Al Hilal Marine Company, una azienda di lavori subacquei legati all’allevamento del pesce, prese corpo la spedizione che si sarebbe, successivamente, protratta per altri quattro anni, anche se con obiettivi diversi.

I CANNONI NELLA BAIA

La località dove installare il campo base era un vecchio avamposto militare, uno degli obiettivi americani bombardato nel 1986 durante l’operazione El Dorado Canyon, a circa 60 km da Derna, privo di corrente elettrica e acqua, con annesso un magazzino di stoccaggio delle gabbie utilizzate per l’allevamento di tonni. Poco fuori il sito archeologico erano infatti installate alcune gabbie di allevamento gestite da una società libico-spagnola, che vendeva i tonni alle grandi navi giapponesi ancorate poco fuori. E proprio durante i lavori di montaggio delle vasche, i subacquei addetti alle operazioni si accorsero di questi cannoni adagiati sul fondale coralligeno della baia.

I PREPARATIVI

Preparammo tutto con cura, sapendo delle difficili condizioni logistiche e che non avremmo potuto acquistare niente sul posto; spedimmo un mese prima le casse con le attrezzature: le bombole, il compressore per la ricarica, le attrezzature da immersione, i metal detector, la strumentazione da rilievo e un piccolo gommone. La partenza fu fissata per l’otto di ottobre e la squadra sarebbe stata composta da cinque subacquei siciliani a cui si sarebbe aggiunto, dopo qualche giorno, Sebastiano Tusa.

BASE DERNA

Insomma le premesse erano elettrizzanti e la squadra si preparò alla spedizione che ebbe inizio con un volo Catania-Malta-Tripoli. Qui ci fermammo per due giorni per concordare con il Ministro delle Antichità Al Kadouri le operazioni da svolgere. Con un volo diretto a El Beyda raggiungemmo successivamente la parte orientale del golfo della Sirte. Da qui, con dei pick up messi a disposizione dalla Ras Al Hilal Marine Company, raggiungemmo Derna, ex capitale della Cirenaica, una città di 80mila abitanti che fu anche colonia italiana, e che sarebbe diventata la nostra base logistica.

I GHEDDAFI

Allora non ci sembrò strano avere a che fare con Saif Gheddafi, secondogenito di Mu’ammar Gheddafi, allora proprietario della R’as Al-Hilal Marine Company che gestiva la logistica delle operazioni, e che ci metteva a disposizione uomini e mezzi per le nostre esplorazioni. A distanza di quasi 20 anni non nascondo un senso di disagio e anche di incredulità. La storia ci ha poi raccontato che Saif, il 28 luglio del 2015, venne condannato alla pena di morte dal tribunale di Tripoli con l’accusa di genocidio e dopo essere scarcerato in forza di una amnistia nel 2016 oggi vive in clandestinità.

UNA CERNIA COME COMPAGNIA

Ogni giorno, con due vecchie Peugeot 204 station wagon degli anni ’60, raggiungevamo il punto di immersione in circa un’ora. Viste le condizioni delle vetture e soprattutto la velocità tenuta dai due tassisti, si rivelò allora la cosa più pericolosa di tutta l’operazione. Effettuammo decine di immersioni in un sito subacqueo praticamente vergine sia dal punto di vista archeologico ma anche naturalistico. La fauna marina era quella che si poteva ammirare nei nostri mari negli anni ’50. Cernie, saraghi, barracuda, dentici, ricciole accompagnavano le nostre immersioni senza la paura che ormai contraddistingue i pesci dei nostri fondali. Ricordo grosse cernie che si avvicinavano fino a toccarci durante le nostre operazioni.

LA MADONNA DEL 1693

E non fu difficile recuperare più volte la cena, utilizzando una lenza e un amo di fortuna che ci consentirono di portare al nostro fidato cuoco egiziano la materia prima per i nostri pasti al termine dei lavori. Le giornate passavano tra le immersioni e il lavoro di documentazione del sito. Centinaia di foto subacquee, riprese video, misurazioni, trilaterazioni, disegni, ricerche. Molti i reperti rinvenuti e recuperati: mestoli, teiere, posate, diversi piatti in peltro, un candelabro, pomelli di porta, un mortaio, un paio di forbici. E ancora la campana di bordo con l’effige di un prelato, del Cristo in croce e di una Madonna e la data, 1693; bozzelli, sartie, armi, munizioni, moltissime palle da cannone. Era visibile a tratti anche una buona porzione dello scafo in legno della nave, probabilmente spezzatasi durante l’affondamento.

UNA GRANDE IMBARCAZIONE

Certamente si trattava di una grande imbarcazione a due ponti con altrettante linee di fuoco, probabilmente una fregata, a giudicare dal numero dei cannoni e dal loro alternarsi in due misure. Ripulendo tre dei cannoni più grandi, rimuovendo sott’acqua la spessa patina che li ricopriva all’altezza della culatta, abbiamo individuato uno stemma costituito da uno scudo ovale ripartito in sei parti, incorniciato in un araldo sagomato con palle ai vertici a sua volta sormontato da due riccioli. Al di sopra di questo stemma era visibile il tipico leone alato di Venezia con corpo di profilo e testa frontale con cartiglio. Avevamo la certezza di avere identificato la grande nave da guerra di Ras Al Hilal come appartenente alla flotta della Serenissima.

LA LIBIA SCOMPARSA

Ripensare oggi a quell’esperienza mi provoca grande emozione, nostalgia, ma soprattutto grande stupore perché dopo circa dieci anni da quei giorni, la zona dove abbiamo vissuto e lavorato sarebbe stata occupata da gruppi di jihadisti e rimasta sotto il controllo dello Stato Islamico, tanto da diventare per qualche tempo la capitale del califfato. Oggi la situazione in Libia è molto cambiata e non so se e quando si potrà tornare.

 

LA DITTATURA

Mi rimane la consapevolezza di avere avuto la possibilità di contribuire a riportare alla luce un relitto importante, di avere vissuto la Libia del periodo della dittatura, con tutte le sue contraddizioni e brutture, un Paese oppresso che oggi vive una condizione tragica con un destino segnato da un lunghissimo periodo buio, ancora adesso.

RICORDI DI UN’AVVENTURA

Rimangono i ricordi di un’avventura che mi ha consentito di visitare siti archeologici straordinari, Leptis Magna e Sabratha, che mi ha fatto attraversare una Libia militarizzata, con i Mig russi occultati lungo le strade pronti a levarsi in volo, le città con l’immagine di Gheddafi in ogni angolo e in mille pose propagandistiche.

ESPERIENZA UNICA

La presenza dell’esercito e della polizia militare sempre, ovunque, con un ex marines libico, Subai, incollato a noi pure sott’acqua. Ma anche uno straordinario territorio con il suo deserto, le sue oasi, i suoi paesaggi,  i suoi fondali, i suoi siti archeologici, la sua gente, il suo cibo e le tradizioni millenarie. Un’esperienza forte, indimenticabile, che anche alla luce di ciò che gli eventi hanno riservato a questa parte del Mondo, mi ha consentito di capire un po’ di più di questa zona dell’Africa.

 

RELITTO IN FONDO AL MARE

Negli anni successivi la missione continuò, ma solamente per indagare alcuni siti costieri; la già delicata situazione politica non permetteva le immersioni subacquee. Per i noti fatti di cronaca, tutte le missioni archeologiche in Libia vennero interrotte e tutto fu abbandonato. Chissà, forse un giorno qualcuno tornerà per continuare il lavoro che abbiamo lasciato incompleto.

 

L’ULTIMO CANNONE RECUPERATO

Molti dei reperti, e l’unico cannone che riuscimmo a recuperare, furono portati al museo di Cirene, ma il relitto giace ancora su quel fondale, in attesa di tempi migliori per l’archeologia ma soprattutto per il popolo libico. Questa libica è stata la mia prima spedizione in terra straniera, in seguito ce ne sarebbero state altre: ve le racconterò.

 

Plaulist: Le Onde – Einaudi