Ero nato da appena due mesi, anzi il secondo mese lo avrei fatto proprio il giorno dopo. La gente mi dà sempre più dell’età che ho e forse per il lavoro che faccio, forse per il semplice fatto che io sia palermitano, capita che mi chiedano dove fossi il 23 maggio del 1992, alle 17:58, durante la strage di Capaci. E come insegna il libro della sopravvivenza, per cadere in piedi, a una domanda rispondi sempre con un’altra domanda.

IL PANNOLINO

Il fatto è che mentre la storia si scrive, tu te ne fotti. Questo probabilmente perché viviamo la nostra vita in prima persona e non abbiamo fitte al cuore quando muore un povero cristo dall’altro lato del mondo. Il dispiacere arriva dopo la presa di coscienza. E quel giorno tutt’intorno si vivevano le ventiquattro ore più tragiche della storia recente siciliana e italiana e probabilmente a me cambiavano il pannolino o forse avevo la poppata del pomeriggio.

LE COTOLETTE

Vado al bar e incontro Giorgio, medico chirurgo che ha operato mia zia. Dottore, se lo ricorda che faceva il 23 maggio? (specificare l’anno non serve, c’è solo un 23 maggio nell’immaginario comune): “Avevo fretta, dovevo ancora comprare la carne per la sera – racconta – il carnezziere era felice per l’attentato, tutti sotto ‘sto cielo siamo. Io non gli ho detto nulla, che mi servivano le cotolette, me le sarei mangiate la sera belle cotte e croccanti davanti alla tv, ma non bruciate che poi nere non si possono mandare giù”.

LA MOTOGP

Se chiedi a Pino invece ti dice che aveva il giorno libero. Da custode della biblioteca, la settimana era stata pesante e davanti al Gran Premio di Imola, non ci sarebbero state altre camurrie a cui pensare. Ma la Rai ferma tutto dando la notizia. “Minchia!”. Pino e suo fratello sono di quei palermitani che magari la storia non la conoscono bene, ma la riconoscono per l’adrenalina che inizia a pompare quando c’è un incidente stradale, una sciarra domestica o un morto a terra. E di cadaveri lì a Capaci, sull’A29 e nei terreni vicini ne avevano più di uno. Molti di più. “Gli dissi a mio fratello di prendere la macchina e in pochi minuti eravamo lì – racconta – non ci fermò nessuno, arrivammo pure a vedere il cratere. La faccia mi stracambiò quando vidi il motore di un’auto sbalzato centinaia di metri nei terreni vicini”, insieme alle lamiere, alle pietre, ai pezzi di corpi umani. Vomitò, ma l’indomani a Imola si sarebbe interrotta a quattro la serie di vittorie consecutive dell’australiano Michael Doohan, avrebbe vinto lo statunitense Kevin Schwantz.

LA SCHEDINA

La notizia raggiunse tutti. Soprattutto i giornalisti, anche Giuseppe che aveva lasciato la briscola per andarsi a giocare la schedina e quella volta, se lo sentiva, il giorno era fortunato e la fortuna non è democratica e non premia gli audaci. Chiedetelo a quelli dell’A29. Tornato in redazione, Giuseppe vide nel viso del collega il cratere: alla radio delle forze dell’ordine si sentì il nome in codice di Falcone, Fox.

IL TELEFONO IN AUTO

La mia professoressa, che si chiama Flora ed è l’unica a non avermi dato debito a scuola senza però fare in modo di evitarmi la bocciatura al quarto anno, era a casa: “Ho ricevuto la telefonata di mio marito che era all’aeroporto – spiega – era uno dei pochi ad avere il telefono in macchina, di quelli grossi. Era in ritardo, tutto era bloccato e non sapevamo il perché”, che camurria, il traffico a Palermo. Un’amica le chiese se avesse avuto notizie di suo marito: “Tranquilla, le dissi, è con Franco all’aeroporto, c’è stato qualcosa in autostrada”.

IL TEMA A SCUOLA

Quel qualcosa avrebbe fatto piangere il papà di Rosa che nel ’92 aveva dieci anni. Oggi fa la correttrice di bozze e quando ci ripensa, ammette: “Fu la prima volta che lo vidi piangere, piangevo con lui senza saperne il perché”. Il lunedì successivo la maestra avrebbe chiesto un tema sull’argomento agli alunni, Rosa avrebbe parlato di suo padre. Una schedina, un pannolino, un tema in classe, un’auto con il primo telefono, una fetta di carne e la motoGP. Non siamo noi, è quando scriviamo in prima persona, è la vita che se ne fotte. Sempre.