Non vale la pena guardare al passato.  Ma a volte la memoria ci sorprende in modo inaspettato e per un fortuito caso. Anche di giovedì. Avevo voglia di gustarmi in santa pace quell’ottimo rosso della casa che il ristorantino “Il gabbiano” con affaccio sul mare, riserva ai suoi clienti. Mi affretto, assecondando il sacrosanto desiderio. Chiedo lo stesso tavolo ad angolo, dove nessuno sguardo può accedere, a meno che non ci si trasformi in abili contorsionisti. Distendo le gambe, e, trovando confortevole la posizione, mi lascio circondare da un unico confuso brusio.

LA VEDO

Un cameriere dal sorriso un po’ affettato si avvicina cauto. Me ne libero su due piedi ordinando il solito quartino. Mi guardo intorno in un attenzione circolare. La vedo. A tre isolati. Impegnata in un’apparente disinvolta conversazione. Stento a controllare l’emozione ma mi conforta ritenere che dalla sua posizione è impossibile accorgersi di me. Ciò non tradirebbe il leitmotiv della nostra amicizia, finita ormai da anni. Spingo giù un sorso e l’amara considerazione. Pare aver cambiato sapore.

IL TRILLO DELLA SUA VOCE

Di sottecchi la osservo. Brilla di anelli e di ampie risa. Mando giù un lungo, secondo sorso. Il trillo della sua voce rintocca, minacciando il mio tempo. Mi riconduco a quegli anni, spassosi di lei e dei suoi artigli. I suoi giochini al massacro, e i miei da vittima fedele. Senza coscienza, con l’anima a svendere. Mi verso da bere, svuoto il bicchiere.

FRAMMENTI DI UN DOLORE

L’aria intorno si fa più densa. Il campo visivo meno nitido. Sarà il vino. Stento a dare un qualsiasi senso a quei ricordi consunti, sospesi sulla mia testa come bolla informe, pronta a scoppiare. Raccolgo frammenti di un dolore antico. Depressione. Il verdetto dello psichiatra non lasciava alcun dubbio. Prescrisse farmaci e colloqui. Ebbi paura.

HO IMPLORATO IL TUO AIUTO

Le sedute mi costringevano a parlare, ma non ero brava abbastanza. Le parole soffocavano senza respiro, in un corpo a corpo con l’anima. Ho implorato il tuo aiuto con lo sgomento e la collera di una questuante. Follie. “Scusami, devo chiudere, ho ancora un gran da fare prima di sera, sì, la vita è un gran casino, ciao”. Mi liquidavi.

IL TUO SENO STRARIPANTE

Avevi sì un gran da fare nel dar conto a una manciata di uomini, tuoi solerti corteggiatori. Al tuo seno straripante, ai tuoi fianchi larghi. E al massaggio, a quello non potevi di certo rinunciare, che dopo il gin tonic te lo saresti gustato meglio. Strizzata nei tuoi tailleur recitavi la tua parte. Senza stile. Non ero più visibile. Tu sputavi sentenze, noncurante.

QUEL BUIO ERA MIO

“Non fare la vittima, non sei stupida, non sei brutta, è un momento, vedrai passerà”. Esprimevi l’evidenza. Mi ferivi. Quel buio era mio e mio soltanto. Dovevo tenerti fuori. Farmene una ragione. Così suggeriva il mio analista insieme a due compresse pro die, per un paio di mesi, o forse più. Staremo a vedere. Sorrisetto e via. Ributtata nel mio inferno.

MENTITO A ME STESSA

Avevo bisogno di attenzione. Non di parole vuote. Il vuoto ce lo avevo già. Nè d’istanti rappresi in una sbiadita telefonata per assicurarsi la coscienza. Avevo bisogno di lealtà e di fiducia. L’una interroga l’altra. Io chiedevo conto a te. A torto. Avevo mentito a me stessa. “Scusami, sai mia figlia non fa altro che darmi problemi, non studia, beata te che non hai figli”. Sapessi che beatitudine.

MI PRESI PER MANO

Contemplavi solo il tuo riflesso, sculettando. Ci misi tempo per capire che era da me che dovevo ricominciare. Non fu facile, non me lo avevano insegnato. Mi presi per mano. Un passo dopo l’altro. Un passo. Cado. Mi rialzo. Metto a nudo i miei fantasmi.

DESIDERO IL CONTO

Cado. Mi rialzo. Un passo ancora. Accolgo. Tanto tempo per riprendermi la voce. Per darle respiro. Ampio. La solerzia del cameriere mi affranca da interrogativi stonati. Che necessitano di un ritorno di silenzio. “Desidera altro?” Desidero il conto. Con urgenza. Senza crepe. Nè fantasmi.

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