Palermo, gennaio 1968.

Fu l’anno in cui un violento terremoto provocò molti danni, ma più che a Palermo, soprattutto nella Valle del Belice. A quei tempi abitavamo al terzo piano di un palazzo vicino alla Cattedrale, a piazza Sant’Agata alla Guilla, e il terremoto lo sentimmo, eccome. Scendemmo tutti in strada e ci rifugiammo nella Seicento di mio padre. Eravamo cinque figli e il più grande, Ninni, aveva dieci anni.

DESTINAZIONE ROMA

Mio padre prese l’evento sfavorevole al volo e in quattro e quattr’otto caricammo dei pacchi sul tettuccio dell’auto (le valigie erano un lusso a quei tempi) e partimmo: destinazione Roma. Lì avevamo parenti.  Prima di partire passammo a salutare i nonni paterni, anche se era una scusa di papà per chiedere soldi alla nonna. Le peripezie affrontate durante quell’interminabile viaggio sono adesso oggetto di risate fra me e mia madre, la quale con dovizia di particolari mi ha raccontato tutta quella “pazzia”, come la chiama lei, essendo io così piccola, all’epoca, da non ricordare tanti particolari.

IL RADIATORE CHE PERDE

All’epoca non esistevano autostrade nel sud e dovevamo attraversare tutti i paesi siciliani e calabresi, quindi era tutto un salire e scendere dalle montagne, con quella Seicento scassata che perdeva continuamente acqua dal radiatore. Per fortuna mio padre si era premunito di bidone d’acqua per aggiungerla man mano al colabrodo. In quelle soste forzate ne approfittavamo per sgranchirci le gambe e prendere qualcosa nei vari bar che incontravamo.

NOI, TERREMOTATI

Mio padre informava i gestori dei bar incontrati nel nostro cammino che eravamo terremotati e loro, mossi da pietà, ci offrivano cibo e caramelle per noi bimbi. Pensate a un piccolo abitacolo, dove coabitavano sette persone. Certo due erano adulti ma gli altri tutti bambini e la più piccola aveva solo un anno e ancora veniva allattata da mia madre. Il resto della ciurmaglia si trovava nei sedili posteriori e litigavamo per ogni minima cosa, così mio padre ogni tanto si fermava pure per sedare gli animi.

DRITTA E SENZA CURVE

Poi, finalmente, l’autostrada che da Napoli a Roma ci facilitò il viaggio, non tanto per la velocità, per quello andavamo come lumache sia per il peso degli occupanti del mezzo sia per i pacchi sul tetto, quanto per la strada. Dritta e senza curve, che provocavano in noi continui vomiti.

LA RUOTA BUCATA

A un certo punto quando mio padre, alla vista del cartello Roma-Torrenova, gridò: “Arrivamu, arrivamu!”, scese dalla macchina e ci scattò una foto, perché lui faceva quel lavoro precario a Palermo, il fotografo. Fatalità volle che non appena imboccammo quella strada, si bucò la prima ruota e mio padre la cambiò. Ma prima che arrivammo a Roma avevamo tutte e quattro le gomme bucate e si sentiva il tipico odore degli pneumatici bruciati. 

ZITTI E PIPA

Tutti i figli, tranne la più piccola che piangeva quasi continuamente, stettero zitti e pipa, anche perché c’era mio padre che gridava come un ossesso per la sfortuna capitatagli. Adesso quei soldi che gli aveva dato sua madre, che dovevano servire per fronteggiare emergenze particolari, dovevano essere usati per comprare quattro gomme nuove.

L’HOTEL BELVEDERE

Per i primi giorni ci ospitò la sorella di mamma, la zia Salvina, poi, un fratello di papà, lo zio Ettore. Lo zio, avendo conoscenze e informandosi un poco ovunque, seppe che il Comune aveva stanziato dei soldi per i terremotati siciliani. Così ci ospitò per un mese di fila un albergo di Ostia: il Belvedere.

IL RITORNO A CASA

Quel mese passò in fretta e quando il direttore dell’albergo ci disse che il periodo di allerta era scaduto e potevamo ritornare nella nostra città, rimanemmo tutti male, ormai ci eravamo abituati a stare lì, anche se mia madre doveva rincorrere i miei fratelli per tutto l’albergo.  Mio padre non si rassegnò, andò in Comune e chiese se potessero dargli un lavoro perché non possedevamo niente e avevamo bisogno di tutto. Ma non ci fu niente da fare. 

SENZA UNA LIRA

Senza una lira eravamo arrivati, in quella città che ci aveva ospitato, e senza una lira ripartimmo. La delusione si leggeva negli occhi di mio padre e di mia madre e noi non osavamo parlare, pensando soprattutto al viaggio di ritorno, che doveva essere peggiore dell’andata perché in più c’era stata l’illusione del cambio di vita, quindi ce ne andammo da Roma come cani bastonati.

LA NAVE PER NAPOLI

Arrivati a Napoli a mio padre balenò l’idea di andare al porto e tentare di partire, senza avere una lira in tasca, con la nave che ci avrebbe portati direttamente a Palermo. Così si mise in coda alle altre macchine che aspettavano di imbarcarsi e al momento di entrare, quando gli chiesero il biglietto, al suo diniego, lo fecero tornare indietro.

GRANDE CAPITANO

Tanta era la rabbia di mio padre che tentò un gesto estremo, minacciò di buttarsi in mare e farla finita, mia madre si mise a gridare e a piangere e per riflesso, anche tutti noi. La più piccola piangeva a prescindere. Chiamarono il Capitano della nave che vedendoci tutti in lacrime, prese la decisione più giusta. “Ma sì, sono tutti miei ospiti” si guadagnò l’applauso di tutta la gente che, nel frattempo, si era radunata a guardare lo spettacolo. Quello in nave fu il viaggio più bello, anche se mia madre scoprì che quasi tutti noi soffrivamo anche il mal di mare oltre che quello d’auto. Almeno avevamo terminato in bellezza quel meraviglioso viaggio della speranza.

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