Il turismo in provincia di Enna fa rima con la Villa del Casale di Piazza Armerina, la meravigliosa e fiabesca dimora romana, famosa in tutti il mondo per i suoi strabilianti mosaici. Altra meta tradizionale è Morgantina, l’antica città abitata sin dall’età del bronzo, poi greca e infine conquistata dai romani. Eppure ci sono tanti altri tesori nascosti in questo territorio poco conosciuto e soprattutto poco valorizzato. Una meraviglia nascosta è il parco di Floristella e Grottacalda, unico parco minerario in Sicilia e uno fra i pochi a livello italiano.

Parco minerario Floristella

ALLA SCOPERTA DI UN TESORO NASCOSTO

Il sito, controllato dall’assessorato regionale ai Beni Culturali, è di rara bellezza paesaggistica e naturalistica, oltre a essere uno scrigno di testimonianze sulla storia della Sicilia. Floristella e Grottacalda sino a metà del ‘900 sono stati uno dei più fiorenti giacimenti minerari siciliani oltre che uno dei principali siti di estrazione e lavorazione dello zolfo. I primi a sfruttar questa preziosa risorsa furono i Baroni Pennisi di Acireale che a fine del ‘700, acquistarono i terreni ed edificarono sull’altura che sovrasta il pianoro, una loro residenza. Oggi il palazzo ospita un’interessante esposizione fotografica che racconta le incredibili condizioni di lavoro e di vita dei minatori, alcuni dei quali erano addirittura bambini.

I bambini minatori

I BAMBINI VENDUTI

Non avevano neanche dieci anni, questi piccoli schiavi chiamati i “carusi”. Le loro famiglie li affidavano per sfuggire alla fame nera al picconiere, stipulando quello che era chiamato il patto del soccorso morto. Il bambino veniva ceduto dai propri familiari in una sorta di affitto ai picconieri della miniera; i familiari venivano pagati in anticipo, per cui si creava un debito che il ragazzo era obbligato a onorare lavorando come uno schiavo privato di ogni diritto.

Nudi al lavoro in miniera

COME VIVEVANO I MINATORI

I minatori si calavano come talpe in stretti cunicoli, le cui imboccature sono ancora visibili e lavoravano per otto ore almeno sotto terra, nudi a causa delle temperature infernali, esposti al rischio di crolli o di esplosioni. Per questa vita d’inferno guadagnavano una paga da fame, senza alcuna speranza, senza alcun futuro, senza alcuna dignità. “Prima i doveri, poi i diritti”, c’era scritto sulla facciata del dopolavoro, un immobile ancora perfettamente visibile alle spalle del palazzo padronale. Perché quello per secoli è stato il quotidiano di questi schiavi dello zolfo, lavorare per mangiare, con la scure della morte che aleggiava in ogni istante nel sottosuolo.

LA FINE DI UN SOGNO

Nel 1963 la Regione siciliana acquisì l’area facendola passare sotto la gestione dell’Ente minerario siciliano, con la prospettiva di un rilancio in chiave industriale. Ma il progetto si rivelò fallimentare, perché gli alti costi di produzione resero non competitivo lo zolfo siciliano con quello estero. L’attività mineraria rallentò sempre di più sino a cessare del tutto nel 1986. Sono visibili i pozzi di estrazione e il sistema di trasporto e di lavorazione in quello che è un mirabile esempio di archeologia industriale italiana e la storia di un sogno imprenditoriale andato in frantumi.