Quella era una casa sempre lustra. Al primo piano, con affaccio sulla strada e serrande abbassate, che sennò entrava qualche po’ di polvere a sporcare i mobili. Al buio anche di giorno, che la luce stinge le pareti e i quadri.  Sulla soglia la signora Candido, madre di tre femmine, aveva sistemato tutta una serie di pezzuole ritagliate a mo’ di ciabatte, che servivano da sotto scarpa. 

LE TRE FIGLIE

Si varcava l’ingresso sottoponendosi a una sequela di sguardi inquisitori. Perlustrati da capo a piedi in un solo batter di ciglia. Gloria, Clara e Clotilde , le sue tre figliole, erano sempre in ordine.  Con una delle tre attraversavo la strada che ci portava a scuola. Non c’era tanto da camminare e la signora Candido per l’occasione apriva uno dei balconi, e ci guardava finchè  non sparivamo dietro l’angolo.

TIRAVA SU LA GONNA

Da quel preciso istante Clotilde, con abili manovre, si alleggeriva del superfluo. Cominciava sempre col togliersi berretto e sciarpa, scivolando via l’elastico dalla sua lunga coda di cavallo, in un unico rapido gesto. Sfibbiava dunque cappotto e grembiule. Tirava su l’orlo della gonna, scoprendo buona parte di gambe ben tornite. Da quel preciso momento cambiava anche la sua andatura. Ancheggiava sbattendomi contro un fianco ad ogni passo, mettendo a dura prova il mio baricentro.  

AL SUONO DELLA CAMPANELLA…

Tutti gli occhi che incontravamo le si  puntavano addosso come spilli. Lei spingeva lo sguardo in alto, e sembrava non curarsene. Io invece mi divertivo a contare quegli occhi. Erano più o meno sempre lo stesso numero. Venti, qualche volta di più. Avevano tutti una specie di scintillio a intermittenza, come le lucine delle frecce di un automobile.  Una volta superato l’ingresso di scuola, se c’erano delle pozzanghere Clotilde ci saltava su a piedi uniti, schizzando con foga tutt’intorno. Quello era uno dei rari momenti in cui la tenevo a debita distanza. Al suono della campanella riabbottonava rapida il grembiule, sistemandosi l’elastico a reggere i capelli e rimodulava il passo.

IO AVEVO POCO DA MOSTRARE

Dal canto mio continuavo a tenere affibbiato grembiule e paltò, ritenendo di aver poco da mostrare, e parecchio da nascondere. Ciò non mi mise al riparo da impacciati tentativi allo specchio. Provavo tutto quel genere di cose in cui Clotilde eccelleva.Sbottonare, arrotolare, sciogliere, ancheggiare. E tutte le volte mi sentivo tremendamente goffa.  Ipotizzai che forse allungando di statura, mettendo un po’ più di fianchi e seno, lavare i capelli con lo sciampo ‘Illumina’ mi avrebbe in qualche modo autorizzato a scoprirmi.

IL REGGISENO IMBOTTITO

Tirai fuori dal cassetto della maggiore delle mie sorelle, uno di quei reggiseni con una specie di tasca interna, dove sovrapposi strati di stoffa rimediata un po’ ovunque, a formare delle mezze sfere. Indossandolo provai una sensazione strana, di costrizione inutile e ci rinunciai seduta stante.  Che poi mi sarei dovuta pure preoccupare di non perderle di vista, perchè ad ogni minimo gesto sembrava stessero lì lì per franare. 

LE SCARPE RUBATE

In quanto all’altezza, quella invece la risolsi con successo. La misura non era esattamente la mia, ma le scarpe che sottrassi a mia madre avrebbero fatto invidia a una regina. Alte un palmo, scollate a mostrare l’incavo delle dita, con un cinturino a segnare la caviglia e d’un colore di fuoco. Il bello era l’incredibile stabilità con cui riuscivo a starci in equilibrio, e come se non bastasse riuscivo a correrci e a piroettare. Uno spettacolo da rimanerci secchi.

ERO ALTA QUANTO LEI

La mattina a seguire ebbi un gran bel da fare a sistemarle tra libri e quaderni e poi una volta fuori dallo sguardo della signora Candido, svoltato l’angolo, le indossai. Con quelle ai piedi ero alta quanto Clotilde e cominciai col sentirmi alla pari, in faccia al mondoIn quanto a lei non riuscì a nascondere il suo disappunto, consigliandomi di non indossarle più, elencando un sacco d’irragionevoli considerazioni sul colore e via discorrendo. E rimase turbata. Certo è che da quel momento le rubai ogni attenzione.  

LE LABBRA ROSSO CILIEGIA

Avevo tutti gli occhi addosso, ma in tutt’altro modo. Non erano più lucine di automobili, ma qualcosa come di curioso stupore. Probabilmente tutto questo la fece precipitare in una crisi bell’e buona. Cominciò col parlarmi meno, solo monosillabi su richiesta. E prese a tingersi le labbra di rosso ciliegia.  Io continuavo a padroneggiare la scena. Credo che le girassero per la testa un sacco di cose, insieme a una crescente invidia per le mie scarpe. Ogni tanto la sorprendevo a guardarle, mordendosi l’angolo delle labbra. Ma non ebbe mai il coraggio di parlarne.  

SGAMBETTO MANCATO

Poi accadde una cosa che  quasi non mi finiva davvero male. Con un rapido gioco di gamba , a tendini tesi, interpose il suo piede al mio. Atterrai sull’altro disegnando un perfetto angolo acuto. Una magnifica prova di stile. Niente poteva mandarla più in bestia. Rimase in bambola, mentre con un saltello degno del Bolscioi, recuperavo di slancio il passo.

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