In via Maqueda, nel cuore pulsante di Palermo c’è un bellissimo palazzo di proprietà delle istituzioni che nasconde avventure e disavventure storiche che andrebbero riscoperte. Nessuno però si allarmi perché i fatti che stiamo per raccontare risalgono all’Ottocento. Facendo delle ricerche in internet sull’edificio storico le notizie che troviamo sono esigue, un po’ lacunose e quindi ci appare evidente che non molti sapranno che a cavallo tra il 1700 e l’800,  Palazzo Comitini, che oggi è sede della fu Provincia Regionale di Palermo, è appartenuto alla famiglia Palmieri (o Palmeri) baroni di Miccichè e marchesi di Villalba.

DON PLACIDO

In particolare ci andremo ad occupare di don Placido Palmieri secondo barone di Miccichè e primo marchese di Villalba, crudele padrone del palazzo. Placido non fu molto dissimile dai tanti nobili dell’Isola, ma si distinse per l’efferata crudeltà nei confronti dei figli, primogenito a parte come voleva la legge del maggiorasco. Fu un attento osservatore delle tradizioni feudali e autoritarie dell’epoca.

IL PREDILETTO

Ebbe sette figli, nell’ordine: il primogenito prediletto Niccolò; Ferdinando che più di tutti rimase nell’ombra; Vincenzo che le vessazioni del padre fecero uscire di senno; Michele fonte principale di questa storia che dalla Francia scrisse delle opere che interessarono alcuni grandi (Stendhal, Dumas padre, Mazzini, Benedetto Croce, Dominique Fernandez e Leonardo Sciascia); Placida destinata al convento senza vocazione; Rodrigo visse tra la Francia con Michele e in Toscana (oggi sepolto a Firenze nella chiesa di Santa Croce); e Marietta destinata a fare la “dama di compagnia” per qualche parente decrepita.

 

VOLEVA UCCIDERE UN FIGLIO

Don Placido, dotato di una discreta cultura, dai suoi figli esigeva ubbidienza assoluta e incondizionata, vedeva i cadetti come un peso, e tutto gli fece pesare, dalla assistenza economica che vide sempre come un furto imposto dalla legge, alla loro esistenza stessa, non nascondeva il suo disprezzo, mai li trattò con riguardo e all’affetto prediligeva il timore; non assecondò mai i figli nelle loro attività o ambizioni, li lasciò sempre alla deriva quando si trovavano nei guai. Ad uno di loro (probabilmente Vincenzo) gli fece puntare il fucile addosso da un mezzadro ordinando di sparare perché vide l’interesse del figlio per una contadinella sulla quale il crudele marchese aveva puntato gli occhi. 

IL FEUDO E IL PROGRESSO

Tutti i membri della famiglia furono fortemente legati al feudo Micciché e al paesino di Villalba, e don Placido fu colui che ne migliorò le colture, questo gli valse il titolo di Marchese, ma in compenso − sempre in linea col pensiero del suo tempo − ostinatamente non volle mai migliorare le pessime condizioni delle strade di comunicazione tra il suo paese e gli altri, per lui significava agevolare l’attività dei ladri. Il figlio Michele in un memorabile scritto ne ricorda le goffe disavventure del padre che partiva in gran pompa da Palermo in carrozza ma entrava nel piccolo paese sul dorso di un mulo − non certo per umiltà, ma perché era l’unico mezzo che poteva percorrere certe strade disastrose.

IL PRIMOGENITO E I CRISTALLI

Oggi Palazzo Comitini conserva due Guttuso, Donne alla fontana e il Paesaggio, ma 200 anni fa don Placido collezionava in modo compulsivo oggetti di cristallo di qualsiasi grandezza e forma. I familiari erano esasperati da questa ossessione, si racconta che gli oggetti erano talmente tanti e ingombranti che quando uno di essi si rompeva o spariva il suo proprietario nemmeno si accorgeva della mancanza. L’amore per i cristalli era pari solo per l’amore per il primogenito, infatti un giorno a tavola alla presenza di alcuni invitati don Placido chiese: «Che stoffa mi consigliate per un soprabito?» e prontamente il primogenito rispose: «Una stoffa di cristallo, padre mio». Una tale libertà e sfrontatezza non sarebbe mai stata tollerata agli altri figli, avrebbe causato pesanti ripercussioni e durissime punizioni.  Che dire? Erano proprio altri tempi…

 

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