Questa fotografia non è stata scattata in un sobborgo di Calcutta ma nel quartiere palermitano dello Zen 2 nell’estate del 1990. Intorno a me c’è una parte della tribù di Enver Sali, l’uomo alla mia sinistra, capo indiscusso della locale comunità rom. L’ha scattata Franco Lannino, fotoreporter dell’agenzia StudioCamera, compagno di mille avventure e disavventure, insieme a Michele Naccari

LA SCOMPARSA DI SANTINA RENDA

Dovevamo fare un servizio su una vicenda tragica, rimasta avvolta nel mistero: la scomparsa della piccola Santina Renda, la bambina di 6 anni svanita nel nulla il pomeriggio del 23 marzo di quell’anno mentre giocava con alcuni coetanei nel quartiere Cep, a poche decine di metri da casa. Secondo alcune testimonianze, la piccola era stata avvicinata da un giovane a bordo di una Bmw.

I ROM DELLO ZEN

Altri sostennero che  era stata vista in compagnia di un uomo, probabilmente un nomade. E si guardò subito con sospetto ai rom dello Zen 2, gli “zingari”, che pure fino a quel giorno aveva convissuto senza problemi con i palermitani. Il quartiere era un ghetto di case occupate abusivamente, molte delle quali senza luce e acqua.

LEGGENDE METROPOLITANE

Per il palermitano medio era un luogo infernale dal quale tenersi lontano. Leggende metropolitane raccontavano di ignari automobilisti, finiti per errore nel labirinto di stradine strette e polverose che delimitavano le squallide palazzine di edilizia popolare, inghiottiti nel nulla, probabili vittime di rapine e indicibili torture.  

IL GRAN CAPO ENVER

In questo clima di caccia alle streghe si cominciò a guardare con sospetto a quel fortino occupato dai rom. Enver Salì, capo illuminato e diplomatico che sapeva tenere i rapporti con le istituzioni e con la stampa, organizzò una spedizione a caccia di Santina, cercandola tra le comunità nomadi di tutta Italia. Ad arroventare il clima, qualche settimana dopo, ci pensò la segnalazione della piccola Santina Renda in un’area di servizio sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria.

UNA COPPIA IN MANETTE

Manco a dirlo, era con una coppia di zingari, a bordo di un’auto. In manette con l’accusa di sequestro di minore finirono due nomadi di origine jugoslava, appartenenti proprio alla comunità che viveva allo Zen. Enver giurò che con la vicenda non avevano nulla a che fare. E le vicende successive gli diedero ragione. 

LA DISCARICA DI BELLOLAMPO

Dopo diversi falsi avvistamenti il padre della piccola raccontò al capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera che la moglie aveva sognato sua figlia rapita da un cugino diciassettenne con problemi psichici, Vincenzo Campanella. Messo alle strette il ragazzo confessò che la piccola era morta cadendo dal motorino sul quale le stava facendo fare un giro. E che, terrorizzato, l’aveva nascosta in una valigia, poi caricata su una motoape e seppellita nella discarica di Bellolampo.

LA SECONDA TRAGEDIA

Si scavò per giorni con le ruspe ma del cadavere non furono trovate tracce. Due anni dopo la tragedia si ripeté. Il 5 febbraio 1992, scompare un altro cuginetto di Santina, Maurizio Nunzio Renda, di 8 anni. Il corpicino massacrato da colpi di spranga viene ritrovato lo stesso giorno. Vincenzo Campanella confessa anche questo omicidio e, processato per direttissima, viene condannato a 29 anni di carcere. Gli viene risparmiato l’ergastolo per le sue condizioni psichiche, ritenuto capace di intendere e di volere.

LA SCOMPARSA DI PIAZZA

Della terribile vicenda si erano occupati altri colleghi, io mi dedicavo alla “routine” dei delitti di mafia. Il 15 marzo era scomparso Emanuele Piazza, ex poliziotto e collaboratore del Sisde che si diceva indagasse in gran segreto su un grosso giro di armi e droga proprio allo Zen. Fui tra i primi ad avere la notizia da una fonte che, nel darmela, si premurò di avvisarmi che “scriverlo equivarrebbe a suicidarsi”.

INCAZZATO PER IL BUCO

Per mesi e con estrema cautela cercai riscontri, ma continuai a sbattere contro un muro di gomma. La fonte era ben informata ma era anche un amico, decisi quindi di aspettare il momento giusto. Ma altri colleghi scrissero della scomparsa e io non sapevo se essere più incazzato per il “buco” preso o soddisfatto di aver evitato ben altro foro.

IL DIKTAT DI CORTESE

Nelle settimane successive ci furono gli omicidi del funzionario regionale Giovanni Bonsignore, del titolare del ristorante “il ficodindia” Pietro Rosselli, di un muratore di Brancaccio fatto trovare incaprettato ed altri cinque o sei altri delitti vari.  Ma quel giorno il direttore Tito Cortese voleva un reportage sulla comunità rom e sulle tensioni nel quartiere.

IL SALOTTO DELLA TRIBU’

E mandarono me con il fotografo. Andammo in macchina, annunciati dalla indispensabile telefonata di un intermediario, in quel caso un’assistente sociale che lavorava nel quartiere. L’intervista la feci nel salotto della tribù. Che era uno spazio condominiale coperto, al pianterreno, dove si affacciavano un paio di alloggi in cui erano stipate decine di persone.

L’INTEGRAZIONE ALLO ZEN

A terra erano stati sistemati alcuni tappeti logori e polverosi con sopra diversi cuscini dai colori e dalla pulizia indefiniti. Con Enver Sali parlammo ovviamente di Santina. Ma anche della situazione dei rom a Palermo e di un argomento oggi abusato ma allora sconosciuto: l’integrazione. Che allo Zen 2, nel bene o nel male, nella solidarietà e nella delinquenza, era un dato di fatto.

UN ALTRO MONDO

La chiacchierata proseguì tra uno stuolo di bambini che scorrazzavano intorno, quasi tutti scalzi e seminudi ma allegri e spensierati. E di donne che uscivano dalle case con pentole e ceste di panni. Sembrava di stare in un altro mondo e mi affiorarono le parole di una canzone di Claudio Lolli: “Ho visto anche degli zingari felici corrersi dietro, far l’amore e rotolarsi per terra”.

LO SGUARDO DI FRANCO

E proprio mentre ci pensavo arrivò una donna con un vassoio di peltro ossidato e sopra alcune tazzine sbrecciate con un liquido scuro che in teoria doveva essere caffè. Lo offrì a me e al fotografo con un sorriso sdentato. Franco mi lanciò uno sguardo interrogativo. I suoi occhi esprimevano tutti i dubbi sulla salubrità di quello che stavamo facendo.

IL CAFFE’ PIU’ GUSTOSO

Ma lo accettammo con piacere, anche per non creare un incidente diplomatico. E’ stato uno dei caffè più gustosi della mia carriera. Migliore di quello servito in una tazzina di porcellana nell’ufficio di cento metri quadrati dell’amministratore delegato di un noto istituto di credito. O di quello sorseggiato nello studio ovattato di un segretario di partito. Certamente migliore di quello preso nella stanza di uno dei tanti burocrati che ho intervistato.

Playlist: Ho visto anche… – Claudio Lolli