Quando si parla di Giorgio Almirante il rimando immediato è alla politica in bianco e nero e alle Tribune Politiche, a quel parlare chiaro ma senza rinunciare ad una ars oratoria di stampo classico, a metà tra Cicerone e il Duce, a quel linguaggio aumentato dallo sguardo di ghiaccio, quello stesso sguardo che ipnotizzava le piazze nostalgiche e niente concedeva alla paura anche quando dietro ad ogni comizio c’era l’acre odore di lacrimogeni e affini.

LOTTA O GOVERNO?

Almirante è stato per anni il vessillo della destra dura e pura, il capo indiscusso di un partito che del fascismo era il prolungamento storico, almeno nei quadri dirigenti e nella base dei militanti. Il doppiopetto fu soltanto la divisa indossata nell’Italia repubblicana, ma le idee e lo spirito erano sempre quello del ventennio. Solo che ad Almirante toccò gestire la fase più delicata della Fiamma Tricolore, il logo diremmo adesso di quel Movimento Sociale Italiano messo al bando, ma solo in teoria dall’intero arco costituzionale. Partito di lotta o di governo? La dialettica interna, sempre ai massimi sin dalla fondazione nel dopoguerra, lo costrinse ad equilibrismi di rara abilità per evitare ciò che Nenni, dal fronte opposto, ammoniva rispetto ad un certo radicalismo tipico di entrambi gli schieramenti: “piazze piene e urne vuote”. Il compromesso almirantiano portò i suoi frutti: le correnti interne trovarono nel segretario l’indispensabile perno, la borghesia nostalgica trovò una casa più adeguata rispetto al grande loft della Dc e i giovani ribelli con il braccio teso ebbero nel Fuan e nel Fronte della Gioventù l’approdo naturale.

ALMIRANTE E IL GEMELLO BERLINGUER

Almirante fu uno dei giganti della politica italiana del dopoguerra, giudizio della storia ma anche effetto dei paragoni che l’attualità ci propone. Questo ricordo non vuole essere un processo di beatificazione, eppure alcune considerazioni bisogna farle. Solo con il PCI ed Enrico Berlinguer si ebbe la sovrapposizione tra partito e segretario così come avvenne con Almirante e il MSI. E ad entrambi, per motivi diversi, non mancò mai una netta opposizione interna che condizionò il minimo indispensabile il loro mandato.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE

Almirante la politica la fiutava, accolse la borghesia e la frangia militare senza rischiare il contagio dall’una e dall’altra; governò con una certa sapienza gli estremismi che talvolta guardavano alle armi più che al Parlamento; non si fece travolgere dalla corsa al centro, perdendo voti ma non l’identità. Della strategia della tensione, tanto cara al Governo di quegli anni e ai servizi segreti, non si è mai compreso sino in fondo se fu vittima o complice. Ma capire gli anni ’70 e svelarne i lati oscuri sarà merce per gli storici della prossima generazione. Come i grandi leader, di dottrina e carisma, tenne unite le truppe sino all’ultimo giorno di comando. Poi le condizioni di salute gli consigliarono il passo indietro.

IL BATTESIMO DI FINI

Battezzò Gianfranco Fini come suo erede e lo fece eleggere anche in congresso, nonostante un’opposizione forte e di qualità. Ma come si faceva a dire no al grande capo? Per molti quella fu la cazzata di una intera vita politica. Ma anche in quel caso, Almirante seppe guardare avanti ignorando critiche e calunnie. “Chi potrà mai dare del fascista ad uno nato nel dopoguerra“. Fini con Alleanza Nazionale andò al Governo, cosa mai riuscita al suo vecchio maestro e portò la destra ad avere quel ruolo sognato sin dal dopoguerra. Poi, tra fusioni a freddo nel Pdl, appartamenti a Montecarlo e duelli rusticani con Silvio Berlusconi,  finì An e anche Fli, ultima creatura in discendenza diretta. Ma questa è davvero un’altra storia.