Dopo più di 700 anni il fascino della Divina Commedia e di Dante è ancora intatto. Il monumentale e incantevole divin poema non smette mai di stupire per la sua attualità e per i suoi aspetti enigmatici. Uno di questi è sicuramente la numerologia, cara a Dante, che nella Commedia vede il suo tripudio − sembra il caso di dirlo − di perfezione. D’altronde il Divin Poeta il suo amore per i misteri non lo ha mai nascosti. Basti ricordare la famosissima terzina del IX canto dell’Inferno: O voi ch’avete li ’ntelletti sani,/ mirate la dottrina che s’asconde/ sotto ’l velame de li versi strani.
LA DIVINA COMMEDIA FA 100
Le 3 cantiche della Divina Commedia sono formate da 33 canti (l’Inferno ne ha 34, ma il primo è visto dagli studiosi come introduttivo, quindi 33+1) la somma dei quali dà 99, multiplo di 3, il più noto dei numeri sacri. E sommando il primo canto si arriva a 100, numero considerato “perfetto”.
LE RIME, LE TERZINE E IL 3
Ogni canto a sua volta è diviso in terzine in uno schema metrico innovato proprio di Dante, in cui le rima ABA BCB CDC DED E, a parte le prime e le ultime, contengono 3 rime. Per capire quanto sia monumentale l’opera basti pensare che in totale è formata da 14.233 versi (Inferno: 4720; Purgatorio: 4755; Paradiso: 4758). Il canto più corto è formato da 115 endecasillabi, il più lungo di 160 versi.
IL SIMBOLISMO DEL 7 E DEL 10
Inoltre, il 3 non è l’unico numero presente per il suo simbolismo, ma fanno capolino il 10, e anche il 7, altro numero che ha affinità sacre (i 7 giorni della creazione ecc). Nella Commedia, per esempio, le cantiche tra loro sono connesse numericamente e si trovano alcuni parallelismi. Tra i più noti i canti VI sono quelli a tema politico: nell’Inferno riferimenti a Firenze, nel Purgatorio all’Italia e nel Paradiso il riferimento più universale all’Impero. A conferma della connessione delle cantiche tra loro è ben noto che tutte si chiudono con la parola “stelle”.
IL VALZER DI NUMERI
Perché questi giochi numerici? Probabilmente per una questione di “ordine”. Dal momento che il poema ha una struttura “architettonica” ben precisa, la presenza numerica doveva far parte di un corpo di costruzione altrettanto preciso. Anzi, era proprio questo che la rendeva precisa nella sua simmetria e nell’equilibrio sia numerico che delle forme per armonizzarsi al tutto. In estrema sintesi − il lettore lasci passare la volgarizzazione − non è altro che un valzer di numeri.
IL NUMERO DELL’AMORE
Questi giochi numerici non sono solo presente nella Divina Commedia, ma sono presente un po’ in tutte le opere di Dante. Il caso forse più evidente è Vita Nova, che già dal titolo ci indica a quale numero pensare, numero “amico” di Beatrice: il nove. In questo libello poetico Dante ci racconta il primo incontro con Beatrice avvenuto all’età di nove anni, è diviso in sezioni novenarie (il prima e il dopo la morte di Beatrice composte ciclicamente da canzoni, sonetti e ymaginatione), la parola nove si ripeterà nove volte.
BEATRICE NON C’E’ PIU’
Il secondo incontro con Beatrice ricorrerà ben nove anni dopo il primo, e allo scritto 19 quello che in cui si capisce che Beatrice non è più, Dante ci narra del legame tra il numero e la donna amata e ora compianta. “E secondo l’usanza nostra, ella si partio in quello anno della nostra inditione, cioè degli anni Domini, in cui lo perfecto numero nove volte era compito in quello centinaio nel quale in questo mondo ella fue posta, ed ella fue delli cristiani del terzodecimo centinaio”.
IL FASCINO DEL SOMMO
Il Sommo Poeta − come abbiamo già visto − era ben conscio dell’attrattiva di tali intrighi e delle difficoltà di comprensione, tant’è che nelle Rime (LXXIX, Voi che ‘ntendendo il terzo ciel movete) ci canta: Canzone, io credo che saranno radi/ color che tua ragione intendan bene,/ tanto la parli faticosa e forte. Saran pure radi quelli che comprendono, ma sono in tanti che ne subiscono ancora il fascino.
Sull’affascinante tema dei numeri in seno alla Divina Commedia, resta però l’enigma del DVX racchiuso nel verso «…un cinquecento diece e cinque,/messo di Dio, anciderà la fuia/con quel gigante che con lei delinque.» (Purgatorio XXXIII, 43-45).
È copiosa la serie di interpretazioni in merito, ma potrebbe essere risolutiva la più semplice e banale di tutte quelle affidate alla razionalità umana. E se si trattasse di un gioco allestito a bella posta da Dante? Come ripetere ciò che raccomandò di essere Gesù, additando un bambino, per entrare nel regno dei Cieli e conoscere la verità?
La mia interpretazione (del bambino naturalmente), attraverso un semplice gioco matematico crittografico, dei suddetti versi coinvolti nei tre numeri «cinquecento diece e cinque», mi ha portato a intravederli nella serie di numeri dei versi di tutta la Divina Commedia. Di qui mi è stato facile giungere ai tre versi:
«Mira colui con quella spada in mano» : 500° verso;
«che sovra li altri com’aquila vola» : 500 + 10 = 510° verso;
«de l’onor di Cicilia e d’Aragona» : 510 e 5 = 5105° verso.
Allora non sarà con le armi di eventuali re della terra designati dai tanti esegeti della Commedia dantesca a impersonare «il messo di dio» che lo castigherà, ma qualcuno con la dialettica dei “numeri”.
Se questo è il messaggio “veltrico” che Dante ha voluto, veramente, rilasciare cripticamente ai posteri, certo, resta ancora velato. Tuttavia, considerando l’amore speciale che il poeta ha voluto infondere nella sua Divina Commedia, ho pensato che «il messo di Dio», intravisibile nel messaggio adombrato «d’Argo» (Par. XXXIII, 36), non abbia una comune «spada in mano», così come è stata sempre intesa quale strumento di morte. Può essere invece una prodigiosa “leva” come quella della ragione, per esempio, giacché si vuole un Dante squisitamente «geometra». Il passo è breve per individuare chi la brandeggia, uno di statura ciclopica, proprio in stretta relazione alla parola «Cicilia», riconosciuta come Sicilia: è il siracusano Archimede famoso per il suo motto:
« Vectis mihi et ego commovebo mundi! »
« Dammi una leva e ti solleverò il mondo! »
In questa chiave, risulta chiara l’allusione alla «mente» (Par. XXXIII, 139), la cui “leva” argomentata, la ragione, è disponibile a tutti gli uomini senza distinzioni, “in chi più, in altri meno”. È naturale e sacrosanto, allora, lo scopo dell’uomo nell‘accingersi a concepire «l’onor di Cicilia» in modo da predisporre questa “casa” perché vi possa entrare la giusta «Regina» che è:
«La gloria di colui che tutto move/per l’universo penetra, e risplende/in una parte più o meno altrove» (Par. I, 1-3)
Ricordiamoci che si sta ragionando sul tema del genere d’uomo nuovo che soggiornerà in una terra nuova che, Giovanni addita nella sua Apocalisse nella Gerusamme celeste.
Gaetano Barbella