Il 17 maggio 1990 l’organizzazione mondiale della sanità metteva la parola fine alla patologia omosessuale: essere gay non è una malattia ma bensì una variante naturale del comportamento umano che comporta l’attrazione sentimentale e/o sessuale verso individui dello stesso sesso. Nel 1990 Gabriele Giuffrè, professore di latino e greco in un liceo classico di Palermo aveva solo 3 anni. Una vita per la scuola. Già da piccolo amava studiare e perdersi nelle letture. Un uomo libero, autonomo, solare, onesto, e gay. Il suo orientamento sessuale non è mai stato un problema, anche se durante la nostra chiacchierata Gabriele dice spesso non è facile, riferendosi soprattutto alla società che lo circonda che, nonostante siano già passati quasi 30 anni da quella illuminata sentenza dell’Oms, continua ad avere pregiudizi nei confronti degli omosessuali.

ATTENTI AL CONTAGIO

Il giovane professore ama mostrare spalle larghe, con sicurezza e determinazione – e probabilmente ce le ha – ma dai suoi gesti e dalla sua voce sembra trasparire un po’ di imbarazzo misto a fastidio nel trattare certi argomenti, soprattutto quando ci racconta uno dei tanti aneddoti vissuti nella sua vita da gay: “Una signora, apparentemente colta e distinta – racconta Gabriele – mi fermò nell’atrio del condominio in cui vivo. Tergiversava con non poco imbarazzo e, farfugliando, provava a dirmi qualcosa riguardo alla mia professione. Pensavo volesse fare riferimento alla mia severità in classe, ma mi sbagliavo. Non hai paura che diventino come te? – mi disse – I loro genitori non hanno paura che tu possa contagiare loro la tua omosessualità“?

LA SCUOLA

Gabriele Giuffrè
Gabriele Giuffrè con alcuni allievi

Pregiudizi che, per fortuna, fanno sorridere Gabriele e che non sembrano essere una costante dell’Istituto Di Rudinì, luogo in cui il professore insegna, una scuola laica frequentata da giovani provenienti da famiglie agiate e con un livello culturale sopra la media: “Finora non ho mai avuto problemi a lavoro – conferma l’insegnante – . Ritengo che io debba essere giudicato per ciò che faccio e non per il mio orientamento sessuale. E io mi ritengo un ottimo docente. L’omosessualità è per me una modalità di essere tra le tante modalità. Per questo non mi sono mai sentito pazzo. Ciò che mi offende maledettamente, da gay, è quando vengono messi in dubbio la mia dignità e la mia coscienza di persona e il fatto che io possa avere gli stessi valori, le stesse priorità e le stesse ideologie di un etero”.

COMING OUT

Le difficoltà maggiori nella vita di un omosessuale sono quelle di convivere in una società spesso bigotta che non accetta le diversità, ma anche quella di fare coming out, che in inglese significa letteralmente “venire fuori”, in buona sostanza esternare al mondo il proprio orientamento sessuale. Un termine che piace poco a Gabriele: “Odio questa espressione, è ridicola. Non si spiattella al mondo la propria sessualità perché è un fatto privato, non c’è bisogno di dirlo ai quattro venti, è come sottolineare una diversità che non dovrebbe esistere. Non ho mai partecipato pertanto ad un gay pride. D’altronde – continua – non esiste un etero pride, quindi non vedo l’esigenza di dover festeggiare l’orgoglio omosessuale. Sono stati riconosciuti dei diritti ed è una cosa di cui andare certamente fieri, ma a volte si esagera. Personalmente la prima persona a cui ho detto che ero omosessuale è stata mia mamma. Mi ha risposto: e quindi? Chi se ne frega? Credo di aver saputo da sempre di essere gay, fin dalla scuola: l’ho capito naturalmente perché ero attratto dagli uomini e non dalle donne. Senza troppe dietrologie, ho fatto semplicemente uno più uno e ha fatto due”.

L’ACCETTAZIONE

Purtroppo non tutti hanno la naturalezza e la libertà di Gabriele Giuffré; lui prova ad inculcare giorno per giorno certi valori ai suoi allievi, anche con lezioni “sui generis”, come quando salì sulla sedia, in un revival de l’attimo fuggente, per attirare l’attenzione dei suoi studenti e per mostrare loro nuove prospettive: “Dovevo spiegare un autore che ha fatto scandalo, che se ne infischiava delle convenzioni. La Medea che denuncia i greci e il barbaro che denuncia la perfezione. Il giorno dopo i miei ragazzi mi hanno detto: visto che lei lo ha fatto ieri con la Medea, oggi lo facciamo noi con l’Ippolito. E sono saliti tutti sulle sedie. I genitori e i loro professori – dice il docente – dovrebbero stare vicino ai propri figli e ai propri studenti, ma solo per educarli e farli crescere felici, colti e onesti. Per il resto, ogni individuo appartiene soltanto a se stesso. Spero che la mia storia e il mio modo di essere, possano aiutare certe persone – che non riescono ad accettarsi per quello che sono e per questo motivo stanno male – a liberarsi e a vivere serenamente. Bisogna metterci la faccia sempre, non nascondendosi da niente e da nessuno, guardandosi allo specchio fieramente e fottendosene del giudizio e del pregiudizio degli altri. Anche se non è facile”.

PLAYLIST: YuYu – Mon Petit Gracon