Vi abbiamo raccontato la storia di Federico che è andato in Africa, ha vissuto da vegetariano ed ha preso la malaria ben due volte. Parte di quegli episodi diventeranno presto un libro, ve ne proponiamo un estratto. 

G.S.

Pannocchie

L’odore di bruciato alle narici, la strada sterrata che ci sporca le scarpe, nessun rumore, il caldo del primo pomeriggio che si attacca alla maglietta e campi di pannocchie ovunque, infiniti. Viene voglia di correre, inseguire qualcosa o essere inseguiti, senz’altro correre. Da qualche minuto abbiamo lasciato il villaggio con le sue case di fango e sassi, le case che ogni giorno spuntano dalla terra e che alla terra tornano dopo la prima pioggia e allora il giorno dopo bisogna ricostruirle, ma tanto in Africa il tempo non insegue nessuno. Ci stiamo inoltrando nel “mato”, io e Joao, gli sto accanto per paura di perdermi, e intanto parliamo di elefanti, il desiderio di vederne uno dal vivo è forte – non è il periodo giusto – dice – ora che le piogge hanno bagnato il terreno i bestioni sprofonderebbero, non si avvicinano alla strada.

Non è difficile, per lui, trovare un piccolo rifugio costruito in mezzo ad un campo di pannocchie: due tronchi conficcati nella terra e ricoperti di foglie per proteggersi dalla calura del sole africano durante i giorni di caccia o di coltivazione, per raccogliere la famiglia, mangiare qualcosa, riposare.

Pannocchie

La donna seduta per terra ci fa accomodare su due sassi, non troppo grandi ma stabili, e non fa altro che sorriderci. È emakwhua e non parla il portoghese, nel villaggio in cui mi trovo solo poche persone lo parlano, tanto non capita tutti i giorni di dover comunicare con un acunha, un bianco; in Mozambico si parlano diverse lingue locali, e farsi capire è difficile persino per Joao (lui è di un’altra regione del paese e conosce un’altra lingua bantu). Mentre cercano di capirsi, guardo tutto quello che mi sta intorno: sul fuoco una pentola senza manici, da un’altra parte le pannocchie, nere e troppo calde per essere mangiate subito, i bidoni gialli che agli africani hanno così tanto cambiato la vita e che riescono a portare in testa senza far cadere una sola goccia d’acqua. Alla donna mancano molti denti, quelli rimasti sono storti, eppure il suo sorriso mi affascina, non mi guarda direttamente – timidezza o cultura – penso, ma so che parla di me con il ragazzo che mi siede accanto, che non si prende nemmeno la briga di tradurre una parola perché tanto le domande sono sempre le stesse – quanti anni ha? è sposato? ha figli? da dove viene? – e lui conosce tutte le risposte (le stesse domande me le aveva poste lui qualche minuto dopo esserci conosciuti), e intanto guardo la donna e la trovo bella, sento l’odore della sua pelle nera sporca di terra, odore di fumo di pannocchie arrostite, odore di un Mozambico sporco che sa ancora di pozzi avvelenati dai portoghesi, di capanne distrutte dalla pioggia, di babbuini che distruggono i campi e di bambini che alle cinque del mattino si svegliano per andarli a scacciare, di donne al fiume che, immerse in acqua, puliscono i vestiti e di neonati che le aspettano in riva, all’ombra, sotto un anacardio, in attesa di essere allattati, di succhiare latte da seni sgonfi che si stendono afflosciati sul petto.

Qualcosa comincia a bollire dentro la pentola, vedo il coperchio andare su e giù e dall’interno esce del vapore, forse è matapa, o forse riso, lasciato cuocere dentro il tegame con un po’ d’acqua e coperto da un sacco di plastica per non disperdere il calore.

Tornato da una caccia un po’ scadente, il marito della donna inizia a sorridere quando mi vede; sembra una mangusta magra e nera armata di arco e frecce, gli occhi piccoli e i denti storti, scalzo come la maggior parte dei mozambicani non si curano dei pericoli che si possono incontrare in posti come questo (ma sono gli acunha i fragili).

Come sei arrivato? – mi chiede – quanto è costato il biglietto, casa tua è lontana da qui?

In Mozambico tanti non hanno idea di come sia il mondo fuori dal campo di pannocchie, fuori dai villaggi, dalle latrine, dagli ospedali da un solo reparto e allora ti fanno centinaia di domande di ogni tipo: soldi, famiglia, lavoro, e danno per scontato che essere bianco significhi essere sapiente, ricco, felice. Mi fa tutte queste domande senza smettere di sorridere, si siede accanto a me in attesa di una risposta, guardandomi dentro, emozionato da una vita diversa, lontana nella sua mente da lavori nei campi di pannocchie, dall’arretratezza tecnologica, dalle malattie e dai pericoli, e io lo guardo e vorrei non sentirmi così tanto diverso – no – rispondo – casa mia non è molto lontana da qui.

Quando torniamo indietro è tutto nero, ma i mozambicani sanno orientarsi al buio.

Playlist: Mozambique – Bob Dylan