La sua è una vita in trincea, in quella trincea fatta di sbarre e di umanità capovolta che è il carcere. Ne ha viste di tutti i colori Rossella, in questi 30 anni passati indossando la divisa di agente della Polizia Penitenziaria. E il suo racconto, lucido, schietto, realista, è un viaggio inatteso in un mondo che non ci si aspetta. “Il carcere è un microcosmo, un universo a sé” dice lei che è bella e fiera, orgogliosa di svolgere un lavoro duro nel quale non ci si può mai distrarre.

INIZIO TRAUMATICO

La sua storia inizia nel 1996, in un istituto di pena del Nord – Italia. (Per ovvi motivi di sicurezza, non ci è possibile dare dettagli precisi sulla donna, né la sua identità per esteso, né l’attuale sede lavorativa o le precedenti). “Avevo poco più di 30 anni e per la prima volta varcavo le porte del carcerecontinua– dopo aver vinto il concorso e aver superato il corso di formazione. In teoria sapevo tutto, in pratica non avevo ben chiaro cosa avrei trovato”. Non nasconde di aver avuto paura, soprattutto all’inizio, perché la polizia penitenziaria si trova a gestire situazioni di ogni tipo, spesso con grandi rischi personali.

“Una sera –racconta– sono stata aggredita da una detenuta tossicodipendente, malata di Aids con una lametta sporca di sangue in mano. Nella cella c’era un lago di sangue, perché lei volontariamente si era ferita violentemente, gridando che voleva cambiare cella. Sono rimasta immobile perché non possiamo difenderci. Sono rimasta ferma, terrorizzata. Le urla della detenuta hanno raggiunto la sezione maschile e questo ha permesso ai colleghi di raggiungermi e di proteggermi”.

INCUBI

Quella notte era il suo ultimo giorno di lavoro prima delle ferie. “Sognavo da tanto una vacanza con la mia famiglia –dice– e non volevo rovinare qui giorni di quiete. Quindi dopo l’aggressione e dopo aver vomitato ininterrottamente per la paura, ho raggiunto i miei cari, facendo finta di niente, non dicendo una parola sull’accaduto. Ci pensavo la notte, rivedevo la scena in tutti i miei incubi e così è stato per anni”.

LA REALTA’ E’ DIVERSA DAGLI SLOGAN

E quell’episodio non è stato l’unico, ce ne sono stati altri. In uno addirittura a proteggerla da un’aggressione è stata un’altra reclusa. “Questo mi ha fortificato il carattere –spiega– mi ha costretto gioco forza ad avere una massiccia dose di autocontrollo, perché so sulla mia pelle di poter contare solo su me stessa. Io sono sempre stata corretta, ho svolto il mio lavoro con precisione, rispettando in maniera totale le detenute ed esigendo a mia volta che loro rispettassero quanto previsto dall’ordinamento giudiziario e dal regolamento dell’istituto”. Non è semplice però, perché il carcere talvolta tira fuori il peggio in ogni individuo, uomo o donna che sia. “La rieducazione è l’obiettivo e io per prima ne condivido finalità e principi. Fuori da queste mura si parla per slogan ma la realtà è diversa perché sono pochi i detenuti a voler attuare un percorso di cambiamento” commenta con amarezza Rossella che osserva lucidamente: “Per una persona la detenzione è come una regressione infantile, per tutto si deve chiedere il permesso. Non tutti accettano questo stato di cose, la ribellione è sempre dietro l’angolo”.

NON SOLO POLIZIOTTI

E a fare da interfaccia fra i reclusi e il mondo esterno ci sono loro, gli agenti di polizia penitenziaria. “Contemporaneamente siamo assistenti sociali, confidenti, medici –dice Rossella– perché in carcere il contatto con la vita fuori siamo noi, con tutto quello che ne consegue. Di notte, per esempio, i detenuti ci cercano per raccontarci le loro storie, magari anche per sfogarsi dopo avere avuto brutte notizie o per chiederci consigli. E di giorno siamo noi a raccogliere le loro richieste. Dobbiamo essere autorevoli e seri, se prendiamo un impegno con un detenuto dobbiamo onorarlo”.

BRUTTE STORIE

Nelle celle c’è un’umanità varia e variegata, spesso le storie in cui ci si imbatte sono atroci. “Fra le detenute ho incontrato mamme che hanno ucciso il proprio figlio – ricorda – mamme pedofile, mamme che hanno venduto i propri figli a un gruppo di pedofili”. E Rossella di fronte a orrori indicibili deve restare impassibile, perché il suo compito è anche quello di proteggere queste detenute dalle aggressioni delle altre. In carcere esistono infatti codici non scritti che impongono ai detenuti di punire i colpevoli di reati contro i minori. “Dobbiamo impedire che i reclusi si facciano giustizia da soli –dice– noi siamo lo Stato, rappresentiamo per primi la legge che va rispettata, sempre e comunque”.

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